Fino ad ora, le grandi città — difficile parlare di metropoli per l’Italia (a esclusione forse di Milano) o per la Svizzera — hanno funto da polo di attrazione, svuotando le aree periferiche di persone e talenti. Una dinamica che si vede ben chiara in Francia o negli Stati Uniti: gli spazi tra le città sono vuoti, di persone e di opportunità.
Se parliamo dell’Italia, il fatto di non doversi più trasferire per forza nelle città più avanzate, permetterebbe di mantenere giovani e persone ambiziose ad arricchire regioni meno avanzate, spostando le richieste di maggiori servizi in aree dove perdurano culture arretrate e per questo sempre più povere.
Beninteso, ci saranno sempre persone che sceglieranno la città nonostante tutto. Perché preferiscono la concentrazione di servizi e persone, perché vogliono maggiore scelta, perché semplicemente sentono il fascino della metropoli, che è potente e attraversa la storia.
A livello internazionale invece non ci sarebbe più la necessità di spostarsi in un altro paese per lavorare, a meno che non lo si desideri o per svolgere alcuni tipi di lavoro. Le aziende, d’altro canto, potranno avere l’intero mondo a disposizione per trovare i talenti.
Ma come la metteremo con la regolamentazione e la tassazione del lavoro? E con la concessione dei visti o con le leggi che regolano le migrazioni?
E se la collocazione di un’impresa sarà sempre meno vincolata dalla disponibilità della forza lavoro e dalla facilità con cui attivare la filiera, allora che ne sarà della loro localizzazione? La concentrazione fisica è diventata sinonimo di fragilità: c’è sempre il rischio che la produzione possa essere bloccata (la recrudescenza della pandemia è l’evento più probabile, o un qualche conflitto) con i danni che abbiamo imparato a conoscere. Una maggiore diffusione geografica riduce i rischi, e potrebbe aumentare i benefici per i territori (se guidata dall’etica, e non diventa una comoda scusa per tradursi nella cannibalizzazione di aree povere e poverissime a scapito dei diritti dei lavoratori).
Il distanziamento sociale regola le interazioni tra le persone: mai troppo vicine le une alle altre e indossando protezioni adeguate. Ma questo non si applica solo alle persone, ha effetti anche sull’intera catena del valore: i partner e i fornitori si possono incontrare solo a determinate condizioni e osservando alcune regole per preservare la sicurezza dei lavoratori e dei luoghi. Incontrare persone diverse dai propri colleghi, fare meeting commerciali, erogare servizi B2B, attivare catene di fornitura… anche le relazioni aziendali verranno fatte in modo distribuito.
Si è inoltre introdotto introdotto sul mercato l’enorme tema della gestione del rischio. Molte aziende che tendevano a sottoinvestire nel mercato digitale per non cannibalizzare le loro reti commerciali e ricevevano quindi il 90% del proprio fatturato dai negozi e il 10% dai contesti digitali si sono trovate completamente chiuse e anche la crescita di 3–4 volte dell’e-commerce non ha compensato le perdite. Da oggi in avanti essere troppo sbilanciati su una sola infrastruttura diventa un rischio e quindi è probabile che le aziende maggiormente bilanciate saranno quelle più premiate dai mercati finanziari.
Ma, per un’azienda, sostenere il peso degli investimenti necessari a questa trasformazione non è cosa da poco, non lo era prima e lo è ancor meno adesso, dovendo anche assorbire l’urto del crollo della domanda. È probabile che a patire maggiormente saranno le piccole e medio-piccole aziende di offerta di beni e servizi e invece ne beneficeranno le aziende di maggiori dimensioni — le quali occuperanno i buchi di mercato lasciati dalle prime -, o quelle più resilienti.
Le aziende che erano già a uno stadio avanzato nel percorso di digitalizzazione sono e saranno in grado di beneficiare delle opportunità di questa nuova situazione: avranno un’offerta digitale potenziata, maggiore velocità di ripresa, e una posizione più forte sul mercato. Lo stesso non si può dire delle altre.
E questo ci porta all’ultimo aspetto dello scenario fin qui tratteggiato: non sarà più il mero profitto lo scopo principale di un’azienda, bensì la capacità di superare quasi indenne — pur modificandosi e adattandosi — gli eventi inattesi o distruttivi. Una capacità cruciale anche per la società, e di conseguenza, la politica.