Negli ultimi decenni, il futuro è stato spesso dipinto come un incubo inevitabile, un’apocalisse imminente. Dal Millennium Bug degli anni ’90 alle angosce legate al cambiamento climatico, dalle minacce di guerre nucleari agli scenari post-apocalittici della cultura pop, fino alla paura odierna che l’intelligenza artificiale ci rubi lavoro e benessere: viviamo immersi in una narrazione pervasa di pessimismo. È come se fossimo spettatori passivi di un disastro annunciato, un destino che ci sovrasta e sul quale non abbiamo alcun controllo.
La proiezione e identificazione di futuri troppo negativi (ma anche al contrario troppo positivi) genera un effetto domino sulle persone. Crea un blocco, l’ansia, la rinuncia ad agire e può portare a una serie di effetti deleteri sia a livello individuale che organizzativo come il “disempowerment” o “l’autoavveramento della profezia” o la “paralisi decisionale”.
Insomma non proprio l’ideale. D’altro canto anche proiezioni di futuri esageratamente utopistici rischiano di portare a scelte un po’ avventate.
Curiosamente, però, anche in tempi prosperi tendiamo a guardare al futuro con pessimismo. Nel 1997, un periodo positivo e pieno di ottimismo, Wired pubblicò un articolo in cui delineava un futuro prospero per l’umanità, a meno che non si fossero realizzati dieci scenari negativi. Nonostante l’aria di speranza dell’epoca, molte di quelle previsioni si sono avverate, dimostrando che non basta proiettare un futuro, ma è l’agire per non far avvenire il peggio e per far avverare il meglio, che è la chiave strategica e tattica per aziende e società.