L’intelligenza artificiale ha ormai permeato ogni aspetto della nostra quotidianità: organizza il nostro tempo, filtra le informazioni, modella il nostro intrattenimento, ci aiuta nei task e persino influisce sulle nostre opportunità lavorative. Questa integrazione sempre più profonda porta con sé non solo progressi tecnologici, ma anche responsabilità significative. Ci troviamo di fronte a un paradosso: i nostri sistemi di AI spesso ereditano, e in alcuni casi aggravano, pregiudizi radicati nella società.
Non si tratta di semplici glitch tecnici: quando Google Photos etichetta erroneamente persone nere come “gorilla”, amplificando insulti razzisti, o quando gli assistenti vocali, attraverso voci femminili di default che perpetuano stereotipi di genere in cui la donna ricopre ruoli di cura e sostegno, assistiamo alla cristallizzazione algoritmica di bias, incorporati nei dati di addestramento e nei processi di validazione, derivanti dalle dinamiche sociali.
La vera innovazione nel design dell’AI risiede nella capacità di trasformare questa sfida in opportunità. L’intelligenza artificiale, se guidata da principi di design inclusivo, può diventare uno strumento potente per abbattere barriere e creare esperienze digitali universalmente accessibili. Oltre all’uso di dati diversificati, è cruciale considerare anche il punto di vista dell’AI stessa, specialmente quando viene utilizzata attraverso i prompt. La formulazione della richiesta incide direttamente sui risultati ottenuti: un’intelligenza artificiale non progetta spontaneamente soluzioni accessibili e inclusive, è necessario guidarla esplicitamente in quella direzione.